La premessa dell’articolo è carica di emozione: Manjula Menon spiega che il saggio è l’ultimo lavoro del filosofo Anand Vaidya, morto l’11 ottobre 2024. Nonostante la malattia, Vaidya ha voluto mostrare come le categorie della filosofia indiana possano arricchire – e forse spostare – il dibattito analitico contemporaneo su sé e coscienza. Menon, con l’aiuto di Jonardon Ganeri, ha completato il testo, che si apre dunque come un lascito intellettuale e personale.
Il racconto della Kaṭha Upaniṣad funge da cornice: il giovane Naciketas chiede a Yama, dio della morte, il segreto dell’immortalità. Yama rivela che esiste una sola realtà: il brahman, coscienza onnipervadente e immutabile che in ogni vivente si manifesta come ātman, il sé individuale. La coscienza è descritta con il termine prakāśa – “illuminazione” – perché rende possibile ogni esperienza così come la luce permette di vedere.
Nel dibattito analitico occidentale, osserva Vaidya, spesso sé e coscienza viaggiano su binari separati: Derek Parfit analizza l’identità personale, David Chalmers la fenomenologia della coscienza. Al centro sta il celebre “hard problem”: perché esiste un “che cosa si prova” nell’esperire? Chalmers lo illustra con il pensiero dei “zombie” fisicamente identici a noi ma privi di esperienza soggettiva, ipotesi che sfida ogni riduzione materialista.
Per mostrare la freschezza della tradizione indiana, l’autore passa a delinearne alcuni cardini. Il Vedānta – fondato su Upaniṣad, Brahma-sūtra e Bhagavad-gītā – e le sue figure di riferimento, Śaṅkara (VIII sec.) e Rāmānuja (XI sec.), discutono con finezza concetti di realtà e illusione: realtà convenzionale, apparente e ultima; illusione temporale (ciò che non è eterno è illusorio) e presentazionale (ciò che appare diverso da com’è). Identificano inoltre cinque aspetti del sé, dal sé empirico che agisce e conosce fino al sé-anima che trasmigra e al sé come manifestazione individuale del brahman.
Śaṅkara propone un monismo radicale: solo il brahman è reale, tutto il resto è apparenza generata dall’ignoranza (avidyā). Usa l’allegoria dell’albero di banyan rovesciato per spiegare come le sofferenze del saṃsāra siano rami di quella radice unica. Rāmānuja replica: la coscienza non è luce senza contenuto ma relazione con oggetti e soggetti; la percezione quotidiana non può essere mera illusione, e i testi sacri implicano un Dio trascendente distinto dal mondo. Ne consegue una visione dualista e teista in cui la coscienza è strutturata e relazionale.
Questa disputa anticipa, secondo Vaidya, i dilemmi odierni del panpsichismo: chi sostiene che la coscienza sia fondamentale (micro- o cosmo-psichismo) deve spiegare come si passi da micro-esperienze o da una coscienza cosmica alle prospettive individuali. I problemi di combinazione, meccanismo e spiegazione riecheggiano le questioni che Śaṅkara e Rāmānuja affrontano su ignoranza, differenziazione e relazione tra brahman e ātman. Il vero “hard problem”, suggerisce l’autore, diventa allora la natura del soggetto cosciente, non la mera qualità fenomenica.
In chiusura, Vaidya e Menon propongono che il dialogo fra la tradizione indiana e la filosofia analitica renda quest’ultima davvero globale: le nozioni di illuminazione e sé possono riorientare la ricerca sulla coscienza, offrendo risposte – o nuove domande – alle sfide lasciate aperte da Naciketas e, oggi, dalla scienza della mente.
Fonte: Aeon, “How classical Indian philosophy helps us understand the self”
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