A un anno dalla sua scomparsa improvvisa, il filosofo del politico Bernard Manin continua a lasciare un segno nel dibattito contemporaneo grazie alla pubblicazione postuma dei suoi ultimi lavori. Tra questi, Un voile sur la liberté. La Révolution française, du libéralisme à la terreur rappresenta un nuovo tassello cruciale della sua riflessione sul governo rappresentativo e sulle sue contraddizioni originarie. Come ricorda Alain Bergounioux su Telos, si tratta del terzo volume di una serie di studi curata da Manin poco prima di morire, e che già include saggi su Montesquieu e sulla deliberazione politica.
Il titolo, tratto da una celebre frase di Montesquieu, invita a interrogarsi sulla frattura tra l’ideale di libertà proclamato nel 1789 e la sua temporanea sospensione sotto il regime del Terrore. La questione non è nuova: come può una rivoluzione nata in nome dei diritti e delle libertà aver generato, in così poco tempo, una forma di repubblica autoritaria? Manin affronta il nodo evitando le semplificazioni ideologiche che hanno segnato le letture storiche più rigide – dal determinismo delle “circostanze” al marxismo dei “sans-culottes” come proto-proletariato, fino alla tesi revisionista di una continuità ideologica tra 1789 e 1793.
Il metodo dell’autore è quello della rilettura accurata dei discorsi rivoluzionari, anche quelli meno noti, per restituire complessità ai dilemmi istituzionali e ideologici che hanno attraversato la Rivoluzione. Secondo Manin, i principi del 1789 non furono traditi ma piuttosto resi impraticabili da due fattori: l’incapacità politica di garantire una reale separazione dei poteri e una concezione della legge troppo assoluta, che marginalizzava l’esecutivo a favore dell’assemblea.
Tre studi compongono il volume. Il primo descrive il “deragliamento del liberalismo”, analizzando il fallimento delle strutture volute dai Costituenti e minate dalla fuga del re a Varennes, dalla guerra e dall’inasprimento dei conflitti interni. Il secondo decostruisce l’idea di una derivazione diretta della Terreur dal pensiero di Rousseau: i giacobini non adottarono la democrazia diretta del Contratto sociale, ma usarono selettivamente retoriche popolari per legittimare la repressione. Il terzo studio, infine, affronta i fondamenti ideologici della Terreur, in particolare attraverso Saint-Just, mostrando come l’identificazione del popolo con la Convenzione abbia portato alla soppressione del dissenso e alla costruzione di un sistema di esclusione e sorveglianza.
Il lavoro di Manin si chiude con un parallelo implicito ma efficace con la rivoluzione bolscevica: anche Karl Kautsky, nel 1919, descriveva un analogo passaggio dal potere rivoluzionario alla dittatura in nome del popolo. Questo legame tra rivoluzioni e derive autoritarie conferma la rilevanza del volume non solo per comprendere il passato, ma per pensare criticamente le fragilità delle democrazie liberali contemporanee.
Fonte: Alain Bergounioux, Bernard Manin et la Révolution française
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