L’arresto di Ali Khan Mahmudabad, professore associato presso la Ashoka University, ha acceso un acceso dibattito in India sulla libertà di espressione, sullo stato di diritto e sull’uso della legge per reprimere il dissenso. Il docente, noto per il suo impegno pacifista e apprezzato da studenti e colleghi, è stato accusato di aver “incitato all’odio” in un post sui social media. In realtà, aveva lodato la moderazione delle forze armate indiane e criticato l’ipocrisia del sostegno selettivo verso le vittime della violenza politica.

A seguito del suo post, che ha fatto seguito all’Operazione Sindoor, Mahmudabad ha ricevuto due denunce: una dalla Commissione per le donne dello Stato di Haryana, l’altra da un esponente del BJP Youth Morcha. Le accuse includono violazioni del nuovo codice penale indiano (Bharatiya Nyaya Sanhita – BNS), tra cui la sezione 196 (che punisce la promozione dell’inimicizia tra gruppi), e la 152, una riformulazione della legge sulla sedizione, che criminalizza gli atti percepiti come minaccia all’integrità dell’India. La pena prevista può arrivare all’ergastolo.

Il post incriminato affermava: “Mi fa piacere vedere così tanti commentatori di destra applaudire la Colonnella Sophia Qureshi, ma forse potrebbero anche chiedere con la stessa forza protezione per le vittime di linciaggi, demolizioni arbitrarie e della propaganda d’odio del BJP”. La Commissione per le donne ha interpretato questo come un attacco alle donne in uniforme e alle operazioni militari. Mahmudabad ha replicato sostenendo che il suo messaggio è stato completamente travisato. 1.200 accademici lo hanno difeso pubblicamente, definendo le accuse una distorsione deliberata del suo messaggio.

Il caso ha sollevato preoccupazioni legali e costituzionali, specialmente in riferimento a un recente pronunciamento della Corte Suprema. In marzo, i giudici Abhay Oka e Ujjal Bhuyan avevano affermato che il contenuto di discorsi controversi va valutato con lo standard di “persone ragionevoli, forti e coraggiose”, non sulla base della suscettibilità di chi si sente facilmente minacciato. La Corte aveva anche ribadito che, in una democrazia sana, le opinioni vanno contrastate con argomentazioni, non con la repressione.

Lo stesso spirito si ritrova in precedenti storici della giurisprudenza indiana. Dal caso Shreya Singhal vs Union of Indiadel 2015, che abolì la famigerata Sezione 66A della legge sull’IT, fino al giudizio del 1989 contro la censura preventiva di un film in Tamil Nadu, la Corte Suprema ha spesso ricordato allo Stato il dovere di proteggere la libertà di espressione. In una sentenza del 2023, l’Alta Corte ha perfino dichiarato che “la sicurezza nazionale non può essere usata come scusa per negare i diritti dei cittadini”.

Alla luce di tutto questo, l’arresto di Mahmudabad viene interpretato da molti osservatori come un attacco deliberato alla libertà di parola, condotto in modo selettivo e con forti connotazioni politiche. In chiusura del suo articolo, la giornalista Mekhala Saran sottolinea che non importa quanto empatico, responsabile o vulnerabile sia Mahmudabad nel suo privato: ciò che conta è che un cittadino è stato incarcerato per aver esercitato un diritto costituzionale. “La libertà non è un dono per pochi”, aveva scritto la Corte Suprema indiana in un altro caso mediatico. Una frase che oggi risuona con forza.

Fonte:

The Wire – Mekhala Saran, Professor Mahmudabad’s Arrest Raises Critical Questions on Free Speech, Liberty and the Law

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