Il Ritorno Dell’america, Tra Pace E Capitale

Dal realismo di Trump al Medio Oriente che cambia volto

Maurizio Molinari e Federico Rampini, da prospettive diverse, raccontano come la tregua di Gaza e la nuova guerra dei dazi contro la Cina siano in realtà parte di un’unica strategia americana.
Nel nostro articolo, mettiamo insieme i loro punti di vista: la geopolitica di Trump che vuole riportare gli Stati Uniti al centro del mondo, e il “trumpismo” che nel Medio Oriente diventa capitalismo, pragmatismo, fine del fanatismo.

La tregua a Gaza e la minaccia di nuovi dazi alla Cina sembrano due episodi lontani, ma — come osserva Maurizio Molinari — sono in realtà i due estremi della stessa strategia. Donald Trump non si limita a raccogliere un successo diplomatico: lo trasforma in leva geopolitica. Dopo aver mediato la fine del conflitto israelo-palestinese, il presidente americano usa il momento favorevole per rilanciare il confronto economico con Pechino, rimettendo gli Stati Uniti al centro del grande gioco mondiale.

Quello che Federico Rampini chiama “il trumpismo in Medio Oriente” è, a ben vedere, la traduzione regionale di questa visione globale. È una miscela di realpolitik e capitalismo, di calcolo e ideologia. Realpolitik, perché Trump sa che il Medio Oriente resta essenziale per energia, finanza, religione e commercio. Capitalismo, perché la sua diplomazia degli “affaristi” — Jared Kushner e Steve Witkoff — parla la lingua che oggi i Paesi del Golfo capiscono meglio: quella del business come alternativa alla guerra.

Il “Piano Gaza”, sostenuto da Arabia Saudita, Qatar, Egitto, Giordania e perfino Turchia, è dunque più di un cessate-il-fuoco: è la proiezione economica di una nuova alleanza. L’idea di un corridoio commerciale tra Asia, Penisola Arabica, Israele e Occidente punta a sfidare la Via della Seta cinese sul terreno della produttività e dell’innovazione, non su quello delle ideologie. E se la Russia di Putin prova a cavalcare il successo di Trump per riaprire il dialogo su Kiev, l’asse vero — scrive Molinari — è quello tra Washington e i nuovi capitalismi arabi, che vedono in Israele non più un nemico, ma un modello.

Rampini lo traduce in una formula efficace: il capitalismo come antidoto al fanatismo. Dopo decenni di teocrazie e conflitti, l’élite saudita e i Paesi del Golfo hanno scelto la modernizzazione. Laddove l’Iran teocratico ha perso influenza, emergono centri di potere che scommettono su tecnologia, turismo, finanza e start-up. In questa prospettiva, Trump diventa non tanto un “uomo di pace” quanto l’imprenditore geopolitico che offre un linguaggio comune a chi vuole prosperare anziché combattere.

Certo, il rischio è che la pace di oggi resti un fragile equilibrio di interessi. Ma anche questo — direbbe Rampini — è un progresso: il Medio Oriente non è più dominato dai profeti dell’odio, bensì dai gestori del capitale. La diplomazia di Trump, cinica quanto si vuole, riflette un mondo in cui la stabilità non nasce da ideali condivisi, ma da investimenti incrociati.

In questo senso, la nuova stagione americana non è soltanto un ritorno del potere, ma un esperimento culturale: trasformare il conflitto in mercato, la fede in business, la guerra in commercio. È un equilibrio instabile, ma — dopo settant’anni di guerre e fallimenti — forse l’unico che oggi funzioni davvero.


Fonti:

Maurizio Molinari, “Trump, le ragioni di una sfida”, La Repubblica, 10 ottobre 2025
Federico Rampini, Newsletter – Che cosa significa il trumpismo in Medio Oriente? Una spiegazione storica, ottobre 2025

L'illustrazione utilizzata per questo articolo è generica e AI-generated; uso libero per finalità editoriali e commerciali.
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