Nel suo articolo sul Corriere della Sera Federico Rampini mette a confronto due narrazioni speculari sulla crisi delle democrazie occidentali. Se dall’Europa si guarda spesso agli Stati Uniti come a una repubblica in declino, minacciata dagli impulsi autoritari di Donald Trump o dai colossi privati alla Elon Musk, un’ampia fetta del mondo anglo-americano restituisce un’immagine opposta: è l’Europa – non i populisti di destra, ma l’establishment progressista e centrista – a farsi illiberale, pronta a imbavagliare il dissenso per «proteggere» la democrazia da elettorati ritenuti inaffidabili.

Rampini affida la dimostrazione a due voci insospettabili di trumpismo. La prima è lo storico statunitense Walter Russell Mead, che al Copenhagen Democracy Summit ha denunciato sul Wall Street Journal la fragilità del “centro vitale” occidentale. Secondo Mead, troppi europei definiscono democratiche solo le elezioni che incoronano i «candidati giusti»; quando vincono partiti scettici su immigrazione, identità di genere o transizione verde, scatta la tentazione di criminalizzarli. Questa confusione tra processo democratico e risultato, avverte lo storico, apre la strada alla censura di idee popolari ma considerate “sbagliate”, e alimenta la sfiducia nelle élite — proprio ciò che i demagoghi sanno cavalcare.

Il secondo campanello d’allarme arriva da The Economist, settimanale ferocemente anti-Trump, che dedica l’ultimo editoriale alle “troppe manette” applicate alla libertà di espressione in Europa. L’Ungheria di Orbán resta il caso più grave, ma il giornale elenca anche Germania e Regno Unito: leggi contro l’“insulto ai politici” o la “grave offesa” online, condanne penali per meme satirici, zelanti unità di polizia che rastrellano i social alla ricerca di commenti “odiosi”. La stessa Francia multa una rete televisiva per opinioni pro-life sull’aborto, mentre le norme sulla “sicurezza online” spingono le piattaforme a cancellare contenuti controversi per timore di sanzioni.

Secondo The Economist, queste restrizioni non riducono i conflitti: li esacerbano, regalando ai populisti l’argomento-chiave che «non si può più dire ciò che si pensa». La spirale del tabù, conclude il settimanale, soffoca il dibattito pubblico e delegittima le democrazie proprio mentre autocrazie come Cina e Russia ingaggiano una battaglia globale di soft power.

Riprendendo queste critiche, Rampini invita l’Europa a riflettere: ignorare l’avvertimento, per quanto provenga talvolta da pulpiti ipocriti, significherebbe consegnare munizioni a chi dipinge il Vecchio Continente come la nuova patria della censura.

FONTE: Federico Rampini, «L’Europa illiberale, vista dagli angloamericani»Corriere della Sera, 21 maggio 2025


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