Dal Centro islamico di Detroit, l’imam palestinese Sufian Nabhan guarda alle notizie provenienti da Gaza con crescente amarezza. Quattro mesi dopo il trionfale ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, la promessa elettorale di fermare la guerra israeliana sembra svanita: Washington appoggia la ripresa dei bombardamenti, mentre l’esercito di Benjamin Netanyahou controlla già il 40 % della Striscia e punta a conquistarne i tre quarti entro l’estate. A Dearborn, la cittadina del Michigan con la più grande comunità arabo-musulmana degli Stati Uniti (circa il 40 % della popolazione locale), l’entusiasmo che a novembre aveva spinto molti a voltare le spalle ai democratici e a sostenere l’ex presidente cede il passo a un miscuglio di dubbi, rimorsi e diniego.
Storicamente legati ai valori progressisti, molti elettori di Dearborn avevano accolto con favore le posizioni conservatrici di Trump sull’aborto, sull’istruzione religiosa e sulla riduzione delle imposte; soprattutto, avevano visto in lui l’unico leader disposto a mediare una pace duratura in Medio Oriente. Oggi, invece, la scia di oltre 53 000 vittime palestinesi e il progetto statunitense di trasformare Gaza in una “Riviera del Medio Oriente” creano disincanto. Lo storico Hani Bawardi osserva come sia “più forte il diniego che il rimpianto”: molti restano legati alle ragioni economiche o nutrono speranze di trarre vantaggio da eventuali investimenti futuri nella regione.
Sul fronte interno, però, il malcontento cresce. La stretta di Trump sull’attivismo universitario – con studenti filopalestinesi privati di borse di studio e perfino dell’immatricolazione – e la decisione della Corte Suprema che consente di revocare la protezione umanitaria a oltre 500 000 immigrati (dai venezuelani ai siriani) alimentano l’ansia. Swanson, giovane palestinese di Dearborn, racconta che il voto del marito – motivato dal rifiuto dei temi LGBTQ promossi dai democratici – rischia ora di impedire il ricongiungimento con la figlia rimasta in Siria. C’è chi, come Nabhan, oggi sceglierebbe un terzo partito; altri invitano a “dare tempo” al presidente, paragonandolo a un padre di famiglia che, comunque vada, sa cosa è meglio per i suoi figli.
Quel che resta è il divario fra le parole pronunciate in campagna elettorale e la realtà che si delinea a Washington. Un divario che, a Dearborn, molti preferiscono ancora non guardare troppo da vicino – mentre il conto delle conseguenze, in patria e oltremare, continua a salire.
Fonte: Le Devoir, “Des Arabo-Américains placés par Trump au seuil du regret”, Fabien Deglise.
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