La memoria collettiva, teorizzata da Maurice Halbwachs già negli anni Venti, non è mai neutra: è sempre frutto di un lavoro selettivoLa memoria collettiva, teorizzata da Maurice Halbwachs già negli anni Venti, non è mai neutra: è sempre frutto di un lavoro selettivo

Viviamo in un tempo che si nutre di memoria, eppure sembra ossessionato dall’idea di cancellarla. Un tempo in cui la rimozione di nomi, statue e opere ritenute “impresentabili” pare essere diventata la forma più radicale di pulizia morale dello spazio pubblico. È la cultura della cancellazione, la cosiddetta Cancel Culture, che si è fatta largo nei nostri discorsi e nelle nostre piazze digitali, tra hashtag e petizioni, diventando un fenomeno collettivo che segna una cesura profonda con il nostro modo di intendere la storia e il ricordo.

La domanda che dobbiamo porci è più radicale: a cosa serve cancellare? Cosa significa moralizzare la memoria? E cosa perdiamo, come comunità, quando ci affidiamo alla rimozione come strumento di giustizia? In un recente saggio (Di Piazza e Spena, 2024)*, gli studiosi affrontano la Cancel Culture non come semplice moda, ma come forma di enforcement collettivo di standard morali. Enforcement, appunto: un termine che evoca sanzione, imposizione, applicazione autoritaria di una norma. Una parola che racconta la tensione tra memoria e moralità, tra libertà individuale e condanna pubblica.

Per capire come la memoria diventi teatro di battaglia, occorre fare un passo indietro e riscoprire il lavoro di Aleida Assmann, una delle voci più autorevoli nel campo delle scienze della memoria. Secondo la studiosa tedesca, la memoria collettiva non è una semplice registrazione passiva del passato, ma una costruzione sociale selettiva, animata da ciò che il presente decide di ricordare. La memoria, ci ricorda Assmann, è sempre “funzionale”: orientata, etica, progettuale. È selezione, non accumulo. E come tale è intrinsecamente esposta alla possibilità di essere moralizzata, trasformata in tribunale della storia.

In questo orizzonte si inserisce il fenomeno della cancellazione come morte simbolica: un atto che non si limita a punire la persona o l’opera di un autore, ma ne decreta l’espulsione dal consorzio della memoria collettiva. È un oblio imposto che “uccide” una seconda volta. Di qui il richiamo alla colpevolizzazione come meccanismo sociale: si individua un colpevole — talvolta anche in base a fatti remoti o trascurabili — e lo si espelle, togliendogli non solo il consenso, ma la dignità di far parte della storia comune.

La memoria collettiva, teorizzata da Maurice Halbwachs già negli anni Venti, non è mai neutra: è sempre frutto di un lavoro selettivo, di un filtro costruito dalle istituzioni, dai media, dalla scuola, dalle famiglie. Halbwachs ci insegna che la memoria è una «costruzione sociale», un mosaico fatto di ricordi condivisi e di dimenticanze strategiche. L’oblio, dunque, non è il contrario della memoria, ma il suo alleato segreto: ciò che scegliamo di non ricordare definisce ciò che vogliamo ricordare.

Ecco allora che la Cancel Culture si inserisce come un meccanismo di “ragione escludente”, per riprendere l’espressione di Joseph Raz. Secondo il filosofo del diritto, una ragione escludente è quella che prevale su ogni altra: non importa quanto un artista sia talentuoso, quanto una canzone sia bella, quanto un film abbia contribuito alla cultura: se colpevole di immoralità — reale o presunta — scatta la ragione escludente, che annulla ogni altro merito. L’immoralità diventa la pietra tombale, la chiave di volta per l’espulsione. La moralità, insomma, diventa la scure che cade sul capo del colpevole, senza appello.

Ma quale moralità? Qui ci soccorre un altro concetto decisivo: la “tirannia dei valori” di cui parlava Carl Schmitt. Quando un valore — la giustizia, l’uguaglianza, la purezza, la memoria stessa — diventa assoluto, totalizzante, tende a divorare tutto il resto. La storia diventa un campo di battaglia tra valori in conflitto, e la memoria non è più un luogo di confronto, ma di conquista. Se un valore diventa legge universale, non ammette repliche, non contempla contraddizioni. È la sua stessa pretesa di purezza a condurlo alla tirannia: non accetta compromessi, non ascolta la complessità del mondo. E così la memoria, invece di unire, si fa campo di esclusione.

In questo scenario, la cancellazione non è solo un atto di giustizia sommaria, ma diventa lo strumento di una moralizzazione radicale della storia. Un atto di purificazione collettiva che riscrive i confini del ricordo, stabilendo chi merita di essere ricordato e chi deve essere condannato all’oblio. È la memoria usata come clava, come processo collettivo di colpevolizzazione. E in questo processo, la comunità si convince di fare giustizia, di raddrizzare i torti del passato. Ma dimentica, forse, che la memoria è fatta anche di ombre, di errori, di compromessi. E che, senza quelle ombre, rischia di diventare una memoria fragile, priva di profondità.

In fondo, la storia dell’umanità è sempre stata una tensione tra ricordo e oblio, tra memoria e rimozione. La Cancel Culture, nella sua tensione moralizzatrice, rende visibile questa tensione e la estremizza. Ci chiede di scegliere: chi è degno di memoria? Chi ha diritto alla statua? Chi può occupare uno spazio nella nostra coscienza collettiva? Ma queste domande, che sembrano urgenti e giuste, finiscono per lasciare sul campo più vittime che soluzioni. E trasformano la memoria in un campo di battaglia dove la colpa diventa un marchio indelebile e la redenzione un lusso che pochi possono permettersi.

Così la memoria, da ponte tra passato e futuro, rischia di diventare una muraglia invalicabile. E la cultura della cancellazione, da movimento di giustizia, rischia di trasformarsi — come ammoniva Schmitt — in una tirannia dei valori, pronta a sacrificare la complessità umana sull’altare della purezza morale. E allora la domanda, più che mai attuale, è: chi decide cosa ricordare? E chi, invece, dovrà scomparire nel silenzio dell’oblio?


  • Di Piazza, S. and Spena, A. (2024) “Cancel Culture and oblivion as instrument of moralisation”, Rivista Italiana di Filosofia del Linguaggio, 18(1). doi: 10.4396/202406203.

L'illustrazione utilizzata per questo articolo è generica e AI-generated; uso libero per finalità editoriali e commerciali.
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