Palermo si sta “paranzizzando”. Roberto Saviano, in un editoriale per il Corriere della Sera, racconta una mutazione profonda: quella di una città che, pur restando sotto l’ombra di Cosa Nostra, si è aperta a un nuovo tipo di criminalità — più giovane, più impulsiva, più spettacolare. È il fenomeno delle paranze, gruppi di ragazzi e adolescenti che si muovono come gang, emulando modelli di potere e virilità appresi da trapper, serie televisive e social network. Il termine, nato a Napoli, oggi descrive un virus che si diffonde ovunque: bande di giovanissimi che cercano un’identità nel dominio del quartiere, nel controllo delle piazze di spaccio, nell’arbitrio di decidere “chi può passare” e “chi deve abbassare lo sguardo”.
Saviano osserva che un tempo la mafia puniva i piccoli delinquenti, li considerava fastidiosi e pericolosi per l’ordine interno. Oggi li tollera, li utilizza, li lascia proliferare perché non ha più interesse a governare ogni metro di strada: le paranze sono braccia armate a basso costo, carne da cannone facilmente sostituibile. Cosa Nostra non li affilia, ma li usa — e sa che può eliminarli in qualsiasi momento.
Il caso dell’omicidio di Paolo Taormina, ucciso da Gaetano Maranzano l’11 ottobre, è per Saviano un paradigma di questo nuovo orrore: un ragazzo assassinato perché “metteva in cattiva luce” l’assassino davanti agli altri. La logica è quella dell’onore deformato in narcisismo: tutto è sfida, ogni gesto è un test di virilità. Basta un “like” messo alla persona sbagliata per scatenare una vendetta mortale.
Questi nuovi gangster non hanno più il portamento elegante dei boss di un tempo: hanno sneakers da mille euro, borselli griffati e catene con pistole d’oro. La loro estetica non nasce dall’ideologia mafiosa ma dalla cultura dell’apparenza, dove l’immagine precede il gesto e la paura è una forma di visibilità. Ridicoli fino al momento in cui sparano.
Ma l’analisi di Saviano va oltre la cronaca. Il suo sguardo individua una trasformazione sociale: la dissoluzione dei codici criminali “classici” ha prodotto un vuoto di senso che i giovani riempiono con la recita del potere. Non cercano più di entrare in un ordine — anche criminale — ma di imporsi da soli, senza regole, senza maestri. Il carcere, in questo orizzonte, diventa un rito d’iniziazione: non una minaccia, ma una meta, il luogo dove si riceve finalmente un riconoscimento.
Dietro le storie di sangue, Saviano scorge il fallimento più ampio: quello di una società incapace di offrire alternative, di un’economia che lascia solo il “lavoro nero” e di una democrazia che non sa più convincere i giovani che il rispetto possa nascere dall’impegno e non dalla paura. Quando un quattordicenne, arrestato con dosi di cocaina, dice ai carabinieri “vado a lavorare”, e aggiunge “non so fare altro che spacciare”, la tragedia non è più solo criminale: è educativa, politica, culturale.
Palermo, come Napoli, come tante città del mondo, sta vivendo un cambio di paradigma criminale: non più la mafia del controllo, ma quella della delega; non più il potere silenzioso, ma la violenza urlata e socializzata. È l’infanzia del male che si fa adulta troppo presto, ma senza crescere davvero.
Fonte: Roberto Saviano, “Palermo e la nuova paranza: l’ascesa (col placet di Cosa Nostra) dei giovani aspiranti gangster”, Corriere della Sera, 16 ottobre 2025.
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