L’occhio umano, perfetto alleato di arte e azione, è in realtà sintonizzato su una sola «ottava» della radiazione elettromagnetica: quella che va dal violetto al rosso. Le altre settantanove ottave restano fuori dalla nostra percezione, ma non da quella delle macchine che abbiamo imparato a costruire. Già nel 1800 l’astronomo britannico William Herschel, frustrato dal desiderio di osservare il Sole senza accecarsi, intuì l’esistenza di raggi capaci di trasmettere calore ma non luce visibile. Con un prisma, tre termometri a bulbo di mercurio e tanta pazienza, spostò le sue misure oltre il bordo rosso dell’arcobaleno e registrò un aumento di temperatura in un’area dove l’occhio vedeva solo buio: era la prima prova dell’infrarosso, «luce invisibile» come la definì lui stesso.
Da quell’esperimento casalingo prese avvio una lenta rivoluzione percettiva. Nel XIX secolo nuovi termocoppie e bolometri affinarono la sensibilità alle radiazioni oltre il rosso; nel 1910 Robert W. Wood ottenne le prime fotografie a infrarossi di paesaggi terrestri, in cui il cielo risultava scuro e gli alberi emettevano un bagliore spettrale. Trent’anni dopo, l’astronomia infrarossa puntò le sue lenti (e poi i sensori al piombo-solfuro) verso il cosmo: nel 1966, dal Monte Wilson, Gerry Neugebauer ed Eric Becklin individuarono la prima stella neonata osservata esclusivamente a queste lunghezze d’onda, nascosta alla vista ottica da un bozzolo di polvere.
Il vero salto, però, arrivò quando fu possibile liberarsi dell’assorbimento dell’atmosfera: nel 1983 il satellite IRAS mappò l’intero cielo e catalogò 350 000 sorgenti infrarosse, rivelando dischi protoplanetari, nubi interstellari e galassie in collisione. Oggi il James Webb Space Telescope, erede diretto di quella tradizione e «più grande occhio bionico mai connesso alla nostra coscienza», orbita a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra dietro uno scudo di Kapton freddo −233 °C. I suoi specchi esagonali rivestiti d’oro convogliano la luce su retine elettroniche in mercurio-cadmio-tellururo e silicio drogato con arsenico, capaci di registrare onde fino a quaranta volte più lunghe del rosso visibile. Ogni immagine che ci invia – galassie in collisione, stelle neonate che soffiano getti di gas – è un’elaborazione di dati: i colori sono traduzioni creative di segnali elettrici che nascono in un dominio che i nostri occhi non potranno mai contemplare direttamente.
Grazie a questa finestra nell’invisibile, il JWST riesce a risalire il tempo cosmico: la galassia JADES-GS-z14-0, osservata com’era 13,4 miliardi di anni fa, testimonia l’Universo quando aveva solo un cinquantesimo dell’età attuale. Secondo la teoria della «mente estesa» di Andy Clark e David Chalmers, strumenti come il JWST non si limitano a estendere i sensi: integrano i loro flussi d’informazione nel nostro pensiero, divengono parte del nostro sistema cognitivo. Così come un impianto cocleare si fonde con la percezione di chi lo indossa, l’infrarosso del Webb – figlio della curiosità di Herschel – amplia lo spazio mentale in cui comprendiamo il cosmo, abbattendo un altro muro fra ciò che siamo e ciò che possiamo conoscere.
FONTE: Aeon, William Herschel’s sensors let us see the invisible Universe
Corey S. Powell è un giornalista e science editor statunitense: ha diretto le riviste Discover, Scientific American e Aeon. Autore di God in the Equation (2003) e, insieme a Bill Nye, di tre libri tra cui Everything All at Once (2017), vive a Brooklyn e sta preparando per Harper One (uscita prevista nel 2026) un volume dedicato agli aspetti invisibili dell’Universo.
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