Marjan è l’incarnazione della condizione femminile in Afghanistan, in particolare nelle aree remote: donne ridotte a merceMarjan è l’incarnazione della condizione femminile in Afghanistan, in particolare nelle aree remote: donne ridotte a merce

In Afghanistan, essere donna significa vivere in una prigione senza sbarre, reclusa dentro le mura di casa, invisibile alla società e ridotta al silenzio. In questo Paese lacerato da decenni di conflitti e potere patriarcale, le donne non vivono, sopravvivono. La testimonianza di Marjan, raccolta e narrata da una connazionale in collaborazione con Aeon e Untold Narratives, è la cronaca straziante di un’infanzia rubata e di una giovinezza dissolta nel buio del fondamentalismo talebano.

Marjan è una delle tante donne pashtun cresciute nelle regioni rurali del sud-est afghano, dove la cultura locale impone norme spietate alle donne: non possono studiare, lavorare, uscire da sole né mangiare insieme agli uomini. Una donna, si dice, “ha due destinazioni: la casa o la tomba”. Fin dalla nascita, le bambine vengono promesse in sposa ai cugini paterni o vendute al miglior offerente. È il caso della walwar, il prezzo della sposa, basato su fattori come altezza, salute e livello di istruzione: un paradosso in un Paese dove alle ragazze è negata la scuola, ma una certa educazione aumenta il loro “valore”.

Quando Marjan ha dodici anni, nel 1996, i talebani conquistano Kabul. Suo padre, drogato e disoccupato, la vende a un combattente talebano in cambio di denaro e hashish. Da quel momento inizia per Marjan un esilio lungo ventiquattro anni. Strappata alla famiglia, caricata su un’auto e nascosta sotto un burqa, viene condotta in un remoto villaggio dominato dalla madre del marito, Adi, una matriarca crudele che governa con un bastone e punisce ogni minima disobbedienza. In quella casa di fango e silenzio, dove le vedove vengono risposate a forza e le donne punite per aver mostrato il volto, Marjan impara la lingua del luogo, le faccende domestiche e la sottomissione. Ma non l’amore, né la libertà.

Nel 2001, mentre la guerra divampa e l’Afghanistan è invaso dalle forze occidentali, Marjan resta isolata in una casa ai piedi di una montagna, sola con Adi e un giovane parente, Nasim. È qui che trascorre anni senza contatti col mondo, parlando con gli animali e con le stoviglie, lacerata dalla solitudine e dal tempo che le sfugge via. La morte di Adi le offre un barlume di possibilità, ma la paura la paralizza. È Nasim a occuparsi della sepoltura, dimostrando una discreta compassione che sarà destinata a crescere nel tempo.

Rientrata a Kabul nel 2021, dopo la riconquista del potere da parte dei talebani, Marjan è nuovamente prigioniera. Nonostante il suo “marito” goda di un’alta posizione nell’Emirato Islamico, lei non ha il permesso di uscire, né di rivedere la famiglia d’origine. Solo con l’aiuto di Nasim, che ora vive con loro, riesce a scoprire che la madre e i fratelli sono rifugiati in Iran e che il padre, il suo carnefice, è morto in un attentato.

Alla morte del marito, Marjan viene nuovamente assegnata: questa volta a Nasim, che rivela di averla sempre amata e giura di proteggerla. Lei accetta per necessità, ma la loro vita coniugale è finalmente libera dalla violenza. Nonostante il rispetto e l’affetto che ora riceve, le ferite restano profonde: «non ho mai vissuto la mia vita, mai per me stessa», confessa.

L’autrice conclude che Marjan è l’incarnazione della condizione femminile in Afghanistan, in particolare nelle aree remote: donne ridotte a merce, a compensazione, a namus da proteggere o punire, mai soggetti della propria storia. Le loro vite scorrono invisibili, sacrificate al controllo patriarcale, alla guerra, alla povertà. E anche quando sembrano sopravvivere, restano spesso, come Marjan, “sepolte vive” nella memoria del dolore.

Fonte: The story of a girl sold into marriage with a Taliban leader, Aeon

L'illustrazione utilizzata per questo articolo è generica e AI-generated; uso libero per finalità editoriali e commerciali.
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