La nuova politica migratoria dell’amministrazione Trump, che concede esclusivamente ai rifugiati bianchi sudafricani l’ingresso negli Stati Uniti, sta scatenando una reazione dirompente tra le principali confessioni religiose del Paese. L’ordine esecutivo firmato all’inizio del nuovo mandato presidenziale ha sollevato forti critiche non solo da ambienti progressisti, ma anche da istituzioni religiose tradizionalmente impegnate nel reinsediamento dei rifugiati.
La svolta è giunta con la decisione della Chiesa Episcopale di interrompere ogni collaborazione con il governo federale in materia di accoglienza. In una dichiarazione ufficiale, il vescovo presidente ha richiamato l’impegno della Chiesa per la giustizia razziale e i legami storici con la Chiesa Anglicana dell’Africa Meridionale, da sempre impegnata, anche grazie alla figura di Desmond Tutu, nella lotta contro le discriminazioni razziali.
L’iniziativa dell’amministrazione viene percepita come una selezione etnica mascherata da priorità umanitaria: dopo aver vietato l’ingresso ai rifugiati in generale, Trump ha creato un canale preferenziale solo per gli afrikaner, presentati come “il popolo più perseguitato al mondo”. Una mossa definita “venale” da molti osservatori, che ha spinto numerose organizzazioni religiose a rompere i rapporti con il governo.
Sette delle dieci agenzie che gestiscono il reinsediamento dei rifugiati negli Stati Uniti operano in base a una partnership pubblico-privata e sono di ispirazione religiosa. Quando l’amministrazione ha interrotto i programmi, ha anche bloccato i fondi per attività già svolte. È il caso della Conferenza Episcopale Cattolica degli Stati Uniti (USCCB), che ha intentato causa a febbraio per ottenere il rimborso di 13 milioni di dollari spesi in anticipo. La causa, affidata al giudice Trevor McFadden, nominato da Trump, è stata respinta, lasciando i vescovi senza risarcimento e con i contratti cancellati. L’USCCB ha fatto appello, ma nel frattempo ha deciso di uscire dal programma di reinsediamento.
Il vicepresidente JD Vance ha accusato la Chiesa cattolica di reagire per motivi economici, suggerendo che il reinsediamento rappresenti un affare lucroso. Ma la USCCB ha respinto l’accusa, precisando che i fondi governativi non coprono nemmeno le spese effettive. D’altra parte, l’organizzazione ha contribuito al reinsediamento di oltre 930.000 rifugiati dal 1980, agendo in coerenza con una vocazione solidaristica.
Anche altri gruppi religiosi hanno reagito. Tre organizzazioni hanno presentato ricorso legale separato contro la misura, sostenendo che sia stata introdotta senza le procedure di legge previste e che violi i diritti di rifugiati che avevano completato il lungo iter di ammissione. Tra le voci critiche figura World Relief, organismo evangelico che pur offrendo supporto a un numero limitato di sudafricani, ha ribadito la volontà di tornare a un programma più ampio e inclusivo.
I sondaggi indicano che anche tra gli evangelici vi è un sostegno diffuso al reinsediamento dei rifugiati. Tuttavia, un alto funzionario dell’amministrazione ha dichiarato che la preferenza verso i sudafricani bianchi è dovuta alla loro “capacità di assimilarsi facilmente”. Una giustificazione che, secondo molti critici, maschera malamente un’intenzione discriminatoria.
Il risultato è che Trump, nel tentativo di importare una popolazione ideologicamente affine, ha finito per alienarsi una vasta rete religiosa che da decenni costituisce la spina dorsale dell’accoglienza. La frattura tra Casa Bianca e Chiese, a questo punto, non sembra più ricucibile.
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