Stephen Mennell, sociologo dell’University College Dublin, osserva gli Stati Uniti da fuori e rinnova una vecchia domanda: perché gli americani sembrano così eccezionalmente individualisti? Riprendendo l’intuizione di Alexis de Tocqueville sul «non essere vincolati da tradizioni o norme di gruppo», Mennell afferma che quel carattere si è formato su due fronti paralleli della storia nazionale. Da un lato, la conquista violenta delle terre indigene ha alimentato un senso di vittoria e di diritto acquisito; dall’altro, l’esperienza di superiorità vissuta dai bianchi proprietari di schiavi ha radicato la convinzione di essere naturalmente destinatari di privilegi.

Secondo l’autore, questo “habitus” plasmato da frontiera e schiavitù ha trovato nuova linfa dopo la Seconda guerra mondiale, quando gli Stati Uniti hanno raggiunto una supremazia militare senza rivali e, stampando la moneta di riserva mondiale, hanno potuto sottrarsi alle regole internazionali cui gli altri devono attenersi. Un potere che ha rafforzato la tendenza a considerare i mercati «liberi» come intrinsecamente equi, ignorando le asimmetrie di forza fra compratori e venditori.

Mennell ricorda che, in qualsiasi rapporto di potere, chi è più debole conosce meglio il più forte: di qui l’insolita scarsa familiarità degli statunitensi con il resto del mondo e, in generale, «una curiosa cecità verso le relazioni di potere». Ma il quadro sta cambiando. L’ascesa economica di Paesi come la Cina erode la posizione dominante americana. Anche se Washington resterà potente ancora a lungo, avverte il sociologo, il declino relativo potrebbe essere avvertito come umiliante da molti cittadini, rendendo gli Stati Uniti «una forza ancor più pericolosa negli affari internazionali» rispetto ai primi decenni del XXI secolo.

Fonte: https://daily.jstor.org/american-individualism-and-american-power/

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