Nick Couldry, sociologo della London School of Economics, lancia un allarme sui costi ambientali dell’intelligenza artificiale in una lunga intervista rilasciata ad Anna Bevan per il podcast LSE IQ. Secondo Couldry, l’uso crescente dell’IA per compiti quotidiani e spesso banali comporta un impatto ambientale sempre più insostenibile, a causa dell’elevato consumo di elettricità e di acqua dolce richiesto dai data centre su cui queste tecnologie si basano.
Il problema principale, spiega, è energetico. I chip che alimentano l’IA sono assetati di energia, tanto che in paesi come Irlanda e India, i data centre assorbono una parte consistente della fornitura elettrica nazionale. Ma la questione non si esaurisce qui: per raffreddare le gigantesche quantità di calore prodotte da questi impianti si utilizza acqua fresca, una risorsa sempre più scarsa. A Londra, Thames Water ha espresso grande preoccupazione per i livelli di consumo idrico, attribuendo parte della responsabilità ai nuovi centri di elaborazione. Le stime parlano di 1,5-2 milioni di litri al giorno per ogni struttura di grandi dimensioni, una cifra che si avvicina all’uso domestico giornaliero dell’intero Regno Unito.
Couldry evidenzia anche le conseguenze dello sfruttamento delle risorse necessarie per produrre le tecnologie che permettono l’uso dell’IA: i dispositivi mobili, ad esempio, richiedono batterie al litio. L’estrazione di questo minerale, in aree già in crisi idrica come il deserto di Atacama in Cile o alcune zone dell’Argentina, sta scatenando proteste delle popolazioni locali, private di acqua potabile in nome del progresso tecnologico.
L’uso dell’IA, prosegue il sociologo, sta accelerando il cambiamento climatico, soprattutto quando alimentata da fonti non rinnovabili. Se da un lato può essere utile per la ricerca scientifica sul clima o per migliorare i servizi sanitari, dall’altro la sua applicazione in attività quotidiane futili—come la generazione di testi banali o la sintesi di ricerche facilmente eseguibili via Google—risulta eticamente problematica. Una semplice risposta prodotta da un chatbot IA può consumare l’equivalente di una bottiglia d’acqua da mezzo litro, e fino a sei volte più energia rispetto a una ricerca online tradizionale.
Il ricorso massiccio a sistemi generativi sta diventando la norma, anche in ambienti scolastici. OpenAI, osserva Couldry, incoraggia gli studenti a utilizzare ChatGPT per svolgere i compiti, spingendo verso un’istruzione automatizzata che rischia di compromettere l’apprendimento reale. Un comportamento che, sotto la maschera dell’efficienza, nasconde intenti commerciali e una deriva verso la “de-skilling”, ovvero la progressiva perdita di capacità fondamentali come la scrittura e l’argomentazione.
Couldry solleva infine dubbi anche sulla trasparenza degli algoritmi stessi, che potrebbero essere manipolati per minimizzare l’evidenza degli impatti ambientali o per censurare contenuti politicamente sensibili. L’IA, ricorda, non ha una coscienza: si limita a ripetere i dati su cui è stata addestrata. Se mancano fonti critiche, mancheranno anche risposte critiche.
Il sociologo invita infine a un cambio di paradigma: serve un dibattito pubblico consapevole sulla sostenibilità dell’IA. È urgente interrogarsi non tanto sulla necessità dei data centre, che resteranno inevitabilmente parte del nostro futuro, ma sulla loro scala. L’espansione incontrollata degli ultimi anni, dovuta alla crescita delle capacità dei sistemi, ha sorpreso anche i governi. Ora è il momento di fermarsi a riflettere, prima che i danni diventino irreversibili.
Fonte: LSE Business Review – Nick Couldry: Using AI for trivial tasks hurts the planet
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