Secondo il senso comune alimentato da media e dibattiti politici, l’Occidente sarebbe oggi più diseguale che mai: la classe media si assottiglia, i super-ricchi prosperano, e le democrazie sembrano sul punto di crollare sotto il peso dell’oligarchia. Ma Daniel Waldenström, economista svedese e autore dell’articolo The Inequality Myth su Foreign Affairs, invita a riconsiderare questa narrazione dominante. A suo avviso, si tratta di un’immagine deformata, costruita su letture parziali e metriche limitate: se si includono variabili spesso trascurate come tasse, trasferimenti sociali, patrimoni pensionistici e mobilità intergenerazionale, emerge un quadro sorprendentemente più equo e ottimistico.
Waldenström non nega che permangano sacche di povertà e che in paesi come gli Stati Uniti la concentrazione di ricchezza al vertice sia significativa. Tuttavia, ridurre la complessità dell’economia moderna alle fortune dei fondatori della Silicon Valley o dei gestori di hedge fund significa ignorare le trasformazioni silenziose che hanno reso milioni di cittadini proprietari di case e partecipi dei mercati finanziari attraverso fondi pensione e investimenti diffusi.
La visione di un’ineguaglianza fuori controllo, resa celebre da Thomas Piketty nel suo bestseller Il capitale nel XXI secolo, si fonda su tre pilastri: i dati delle dichiarazioni fiscali, che mostrano redditi lordi crescenti per l’1% più ricco; le rilevazioni sulla concentrazione della ricchezza; e gli esempi eclatanti che popolano i titoli dei giornali. Ma, nota l’autore, queste fonti presentano lacune. Iniziare l’analisi dagli anni Ottanta – periodo di minima disuguaglianza post-bellica – amplifica l’apparente impennata odierna. Inoltre, molte analisi trascurano l’effetto redistributivo di imposte progressive e welfare state, o non includono nel computo i patrimoni pensionistici e le abitazioni di proprietà, ovvero i principali asset del ceto medio.
Uno studio degli economisti Gerald Auten e David Splinter ha mostrato che correggendo le stime con redditi non dichiarati, contributi previdenziali e trasferimenti sociali, la quota di reddito post-imposte detenuta dal top 1% negli Stati Uniti risulta solo lievemente aumentata rispetto al 1960, ben lontana dal raddoppio suggerito da Piketty. In Europa, la redistribuzione statale e la minore incidenza di stipendi “da superstar” hanno reso il trend ancora più stabile.
Waldenström illustra tre evidenze fondamentali per smentire l’idea di una crescente disuguaglianza:
- La ricchezza privata è aumentata enormemente, ma è distribuita in modo più ampio. Nei principali paesi occidentali, il patrimonio reale per adulto è triplicato dagli anni Ottanta e cresciuto di sette volte dal 1950. Gran parte di questo capitale si trova oggi nelle case e nei fondi pensione della classe media. Il concetto stesso di “democratizzazione finanziaria” è diventato realtà: la maggioranza delle famiglie possiede la propria abitazione e investe (indirettamente) nei mercati azionari.
- La concentrazione della ricchezza è calata nel lungo periodo. In Europa, la quota di ricchezza detenuta dall’1% più ricco è oggi circa un terzo di quella del 1910. Negli Stati Uniti si osserva un aumento a partire dagli anni Settanta, ma si resta comunque lontani dai livelli anteriori alla Prima guerra mondiale.
- Le statistiche annuali non tengono conto della mobilità sociale e dei cicli di vita. Studenti universitari e pensionati appaiono poveri nei dati di reddito, ma ciò non riflette la loro reale capacità di consumo lungo l’arco della vita. Gli studi longitudinali mostrano che metà delle famiglie nel decile più basso sale in classifica nel giro di pochi anni, mentre anche le famiglie più ricche possono scendere. Se si includono pensioni pubbliche e assicurazioni sanitarie nel reddito disponibile, le disuguaglianze si riducono sensibilmente.
I dati, quindi, non raccontano di un nuovo “età dorata” per pochi privilegiati, ma di una significativa espansione della ricchezza diffusa. Le fortune di imprenditori miliardari, pur vistose, riflettono l’innovazione e i benefici diffusi: nuovi prodotti, posti di lavoro, entrate fiscali. La crescita economica ha portato miglioramenti generalizzati: aumento dell’aspettativa di vita, scolarizzazione di massa, accesso universale alla tecnologia.
L’autore mette in guardia contro diagnosi errate che spingono verso rimedi controproducenti: tasse patrimoniali annuali, espansione pubblica mal calibrata, politiche redistributive mal direzionate. Esperienze passate in paesi scandinavi dimostrano che le imposte sulla ricchezza producono entrate scarse, sono costose da amministrare e stimolano la fuga di capitali. Tassare i redditi da capitale, come dividendi e plusvalenze, è una soluzione più efficiente.
Infine, Waldenström conclude che un’agenda equilibrata dovrebbe incentivare l’ambizione, garantire concorrenza, espandere l’accesso a strumenti di accumulazione patrimoniale e sostenere servizi pubblici che integrino, anziché ostacolare, la prosperità privata. Non è la fortuna di pochi a definire il successo dell’Occidente, ma il benessere quotidiano dei molti che vivono meglio delle generazioni precedenti. Prima di dichiarare l’emergenza, occorre guardare con lucidità ai dati: l’ineguaglianza esiste, ma è ben diversa da quella raccontata dai profeti del disastro.
Fonte: Foreign Affairs
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