All’ultima conferenza del partito a Liverpool, il tema che ha dominato corridoi e dibattiti è stato uno solo: come fronteggiare la crescita di Reform UK di Nigel Farage. Seth Thévoz descrive un clima di sbandamento, segnato da annunci “di riflesso” e da una sequenza di dimissioni o rimozioni ai vertici di Downing Street nelle ultime settimane, sullo sfondo di sondaggi che vedono il Labour dietro a Reform da oltre cento rilevazioni consecutive e persino a rischio di disfatta in roccaforti gallesi. L’ansia, sostiene l’autore, nasce dall’idea che le divisioni interne possano consegnare il potere agli avversari.
Thévoz individua tre risposte, che corrispondono ad altrettante correnti. La prima è quella dei “tecnocrati”, minoritaria ma influente, che riduce il problema a un dossier di amministrazione: smaltire liste d’attesa per l’asilo, chiudere gli alberghi, far funzionare i servizi e il consenso tornerà. È un approccio che l’autore attribuisce all’istinto di Keir Starmer e del suo staff, tutto centrato su efficienza e soluzioni tecniche.
La seconda è l’area di Blue Labour, oggi la più rumorosa: punta su messaggi socialmente conservatori (immigrazione e sicurezza) e gode, secondo l’articolo, di un canale privilegiato verso il leader attraverso la figura di Morgan McSweeney e l’ecosistema del think tank Labour Together. Attorno al fondatore Maurice Glasman, presentato come sempre più ascoltato, si è consolidata la tesi che per battere l’estrema destra occorra “incontrare” le sue preoccupazioni. I critici replicano che così si legittima l’avversario e che i successi rivendicati da questo filone siano spesso sovrastimati.
La terza risposta è il “fronte ampio”: chi la sostiene ricorda come, tra 1997 e 2010, il Labour abbia perso terreno più per l’erosione a sinistra (Verdi e LibDem) e per l’astensione che per travasi diretti verso i conservatori. Oggi, argomentano, i passaggi Labour→Reform sarebbero relativamente pochi (circa il 3%), mentre Labour perderebbe più voti verso Verdi/LibDem e, soprattutto, verso l’apatia. Ne discende che la priorità non è imitare le parole d’ordine anti-immigrazione, ma mantenere le promesse di riforma – economica, sociale e politica – per ricomporre l’elettorato progressista.
Per spiegare come si sia arrivati a questo punto, l’articolo richiama due lenti interpretative. La prima è il vecchio schema dei “values modes” (Pioneers, Prospectors, Settlers): New Labour tentò di tenere insieme tutti e tre i gruppi e ne rimase poi intrappolato; oggi una sua riproposizione spingerebbe il gruppo dirigente a inseguire i “Settlers”, i meno propensi a votare Labour. La seconda è la mappa del British Election Study, che individua tre grandi concentrazioni nel paese: destra autoritaria, sinistra autoritaria, sinistra liberale. Il Labour, capace di coprire le ultime due, è però anche strutturalmente diviso fra di esse. In un sistema elettorale di Westminster attraversato da frammentazione “alla francese”, conclude Thévoz, basta ormai poco più di un quarto dei voti per vincere: ed è proprio questa combinazione di frammentazione e spaccature interne a far tremare gli attivisti.
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