Nel mondo contemporaneo, il crescente ritorno a politiche di autosufficienza economica – da Donald Trump agli slogan di Xi Jinping, passando per Putin, Modi e le recenti strategie dell’Unione Europea – viene spesso letto come una risposta ai rischi della globalizzazione. Ma, come dimostra l’ampia e documentata analisi pubblicata su Aeon, l’isolazionismo non è affatto un fenomeno nuovo, bensì una spinta radicata profondamente nella storia umana, nelle dottrine filosofiche e nelle aspirazioni morali individuali e collettive.
Fin dall’antichità, l’autosufficienza è stata celebrata come forma suprema di virtù. Diogene di Sinope, filosofo cinico del IV secolo a.C., divenne il simbolo estremo di questa posizione: viveva in una botte, rifiutava ogni convenzione sociale e rispose ad Alessandro Magno, che gli offriva qualunque cosa desiderasse, con un semplice «scostati dal mio sole». Un gesto che racchiudeva un’intera visione del mondo: bastare a se stessi è più nobile che possedere il mondo intero.
Anche Aristotele considerava l’autosufficienza un bene, non solo per l’individuo ma per la polis: un’entità deve essere autonoma per permettere ai suoi membri una vita degna, fondata sulla filosofia e non sulla dipendenza. Questa nozione attraversa i secoli e trova una nuova formulazione in Tommaso d’Aquino, che nel XIII secolo coniuga la visione aristotelica con il cristianesimo: Dio stesso è il massimo esempio di autosufficienza, e le città virtuose sono quelle che producono da sé il proprio nutrimento. Il commercio, al contrario, risveglia l’avidità e corrompe l’anima.
In Giappone, il principio di autarchia ha guidato la politica del sakoku nel XVII secolo, con la chiusura del Paese agli influssi stranieri e il rifiuto del cristianesimo europeo, per difendere valori e sovranità. In Europa, tra Illuminismo e Romanticismo, il pensiero autarchico si rinnova con Rousseau, che immagina l’uomo primitivo come solitario e felice. Egli consiglia ai popoli di ridurre il commercio e rafforzare la produzione interna per conservare libertà e giustizia. Il filosofo tedesco Fichte porterà questa idea alle estreme conseguenze, sostenendo che solo uno Stato economicamente chiuso può sviluppare un onore e un carattere nazionale autentici.
L’utopista Charles Fourier, invece, dà vita a una versione più comunitaria dell’autarchia, ideando i “falansteri”, comunità autosufficienti in cui si pratica un’educazione unitaria e si garantisce un minimo vitale per tutti. Le sue idee ispireranno esperimenti sociali del Novecento come i kibbutz israeliani e le comuni hippie. Analogamente, i movimenti ambientalisti contemporanei propongono una decrescita ispirata alla frugalità di Diogene, opponendosi al consumismo globalizzato.
Anche Gandhi rielabora questi temi, proponendo per l’India un modello di villaggi autosufficienti – «piccoli giardini dell’Eden» – fondato sulla produzione locale di cibo e vestiti. Sebbene egli non rinunci del tutto al commercio, insiste sulla necessità di produrre in patria ciò che è possibile, come reazione al dominio economico britannico. Simili visioni hanno guidato anche il socialismo africano di Julius Nyerere in Tanzania e la filosofia dello ujamaa, basata su comunità agricole auto-organizzate.
Ma l’autarchia non è solo una bandiera progressista. Negli Stati Uniti, il libertario Robert LeFevre teorizza negli anni ’60 l’“autarchismo”, una forma di auto-governo totale in cui ogni individuo si assume piena responsabilità della propria vita, senza interferenze statali. Questa idea influenzerà profondamente personaggi come Charles Koch e movimenti contemporanei come il Free State Project del New Hampshire. Eppure, anche nella versione individualista, ritorna il legame con il mito greco dell’autosufficienza personale.
Non sempre, tuttavia, l’autarchia nasce da ideali. A volte è una risposta brutale alla guerra. Hitler teorizza l’autarchia tedesca come necessità di sopravvivenza dopo il blocco britannico nella Prima guerra mondiale, e per questo promuove la conquista del Lebensraum. Stalin e Mao, pur disponendo di immense risorse interne, perseguono politiche di autosufficienza forzata – la collettivizzazione in URSS, i forni domestici nella Cina maoista – che causano disastri umani ed economici. In Corea del Nord, Kim Il Sung fa del juche – principio di autoaffermazione e isolamento – la dottrina fondante del regime totalitario, ancora oggi responsabile dell’isolamento e della miseria della popolazione.
Tuttavia, anche nazioni democratiche come gli Stati Uniti hanno fondato il proprio sviluppo sull’autarchia. George Washington e Alexander Hamilton, nei primi anni della Repubblica, sostengono l’adozione di dazi doganali per proteggere le industrie nascenti. La stessa logica guida oggi le dichiarazioni di Donald Trump, che ricollega la produzione interna alla sicurezza nazionale.
In tempi recenti, anche pensatori come Curtis Yarvin (alias Mencius Moldbug) rivendicano l’isolazionismo come forma di pace. Proponendo una “neo-sakoku” per gli Stati Uniti, Yarvin si ispira direttamente alle chiusure storiche del Giappone e della Cina imperiale, interpretate come strategie di difesa culturale. Secondo lui, l’isolamento volontario può garantire stabilità e conservazione dei valori nazionali.
Eppure, l’antropologia ci mostra che il commercio è antico quanto l’umanità: strumenti di ossidiana ritrovati in Kenya, risalenti a oltre 300.000 anni fa, provengono da territori lontani, segno di scambi tra gruppi. Contrariamente a quanto pensava Rousseau, l’essere umano non è mai stato davvero un solitario autosufficiente. La nostra natura è cooperativa, e la globalizzazione ha portato, seppur in modo ineguale, benefici materiali e progresso tecnologico inimmaginabili.
Ma l’impulso all’autarchia, ci ricorda l’autore dell’articolo, ha una resilienza straordinaria. Proprio per la sua capacità di adattarsi a qualsiasi ideologia – religiosa o laica, progressista o conservatrice, coloniale o anticoloniale – l’ideale dell’autosufficienza torna ciclicamente, come un El Niño storico. Può essere strumento di giustizia sociale o di oppressione, di pace o di guerra, di crescita o di arretratezza.
La sua persistenza è dovuta anche al legame profondo, quasi viscerale, tra la moralità individuale e le strutture collettive. Ogni movimento politico, per avere successo, deve toccare qualcosa di fondamentale nell’animo umano. E l’idea che bastare a sé stessi sia una virtù resta, da Diogene fino ad oggi, una delle leve più potenti della coscienza collettiva.
Fonte: Isolationism isn’t new and is fuelled by deep human desires, Aeon Essays
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