Il libro di Markus Holdo, Participatory Spaces Under Urban Capitalism: Contesting the Boundaries of Democratic Practices (Routledge, 2024), analizza in profondità come i cittadini si rapportano al potere attraverso istituzioni partecipative nelle società capitaliste. Adrian Bua, recensendo l’opera per la LSE Review of Books, la definisce un lavoro accurato ed elegante, sebbene ritenga che avrebbe potuto giovarsi di un ancoraggio più forte alla sociologia relazionale piuttosto che alla prospettiva razionalista.
Il testo esplora la relazione tra partecipazione democratica e legittimazione del potere, sottolineando come strumenti come il bilancio partecipativo o le assemblee dei cittadini siano spesso considerati mere strategie di legittimazione da parte delle élite. Tuttavia, Holdo sostiene che proprio il bisogno di legittimità — che solo i cittadini possono fornire — possa offrire ai partecipanti una leva per negoziare condizioni e ottenere concessioni.
Al cuore del libro vi è la distinzione tra cooptazione, intesa come assorbimento degli attori della società civile all’interno dello Stato e conseguente perdita di autonomia, e cooperazione condizionata, che mantiene l’indipendenza e può stimolare dinamiche di democratizzazione. Questa analisi si fonda su una ricca documentazione empirica, in particolare sul caso del Bilancio Partecipativo di Rosario, in Argentina, ma anche su altri esempi storici e contemporanei, dal movimento per i diritti civili negli Stati Uniti al partito Podemos in Spagna.
La ricerca integra prospettive teoriche spesso in tensione: l’economia politica critica e la teoria democratica, la sociologia relazionale e la scienza politica razionalista. Il primo capitolo presenta la questione centrale: la partecipazione è, al contempo, uno strumento di cambiamento democratico e una possibile legittimazione delle élite. Holdo propone uno sguardo relazionale alla partecipazione come pratica sociale inserita in campi di potere, ma anche una lente razionalista per testare se, pure in contesti di motivazioni individuali strategiche, la partecipazione possa conservare potenzialità democratiche.
I capitoli successivi analizzano come la struttura neoliberale generi bisogni di legittimazione, come la cooperazione condizionata possa rafforzare la legittimità senza annullare l’autonomia dei cittadini e come l’impegno verso la comunità e la rappresentanza degli interessi dei vicini generino un “capitale simbolico” che spinge i partecipanti a difendersi dalla cooptazione. Nel caso di Rosario, Holdo mostra come questo “capitale deliberativo” sia stato utilizzato strategicamente dai partecipanti per influenzare le decisioni governative, rimanendo autonomi ma cooperando.
Il capitolo finale sintetizza la teoria della partecipazione come processo di “negoziazione dei confini”, in cui i cittadini usano il proprio capitale simbolico e la legittimità per generare risposte da parte delle élite. La partecipazione diventa così uno spazio di continua rinegoziazione, più che un processo semplicemente emancipativo o cooptativo.
Nonostante l’analisi sia ricca e convincente, Bua evidenzia una tensione teorica. La sociologia relazionale bourdieusiana — su cui Holdo si appoggia — intende la strategia come un adattamento inconsapevole degli obiettivi ai vincoli sociali, mentre la prospettiva razionalista si fonda su un calcolo deliberato. Questo dualismo, secondo Bua, lascia aperta la questione di quanto la cooperazione condizionata riesca davvero a sfuggire alla cooptazione o se, invece, finisca per riconfigurarla in forme più sottili, come nella “rivoluzione passiva” gramsciana.
In definitiva, Participatory Spaces Under Urban Capitalism resta un contributo prezioso per chi studia la democrazia partecipativa, la sociologia politica e le dinamiche urbane, soprattutto per chi si interroga sulle possibilità di azione collettiva in contesti di crisi democratica e capitalismo globale.
Fonte: blogs.lse.ac.uk