Putin, la forza delle parole e il doppio gioco di Istanbul
Venticinque anni dopo il celebre “li prenderemo fin dentro al cesso”, Vladimir Putin resta fedele alla strategia che ne ha segnato l’ascesa: parlare la lingua del popolo, anche con brutalità, per incarnare la forza della nazione. Il suo linguaggio, spesso volgare e sessista, è tutt’altro che casuale: è uno strumento di potere. Lo ha usato contro giornalisti, oppositori e leader stranieri, per consolidare un’immagine di leader diretto, spregiudicato e immune all’etichetta diplomatica. Anche il recente insulto ai leader europei – “deficienti” – rientra in questa logica comunicativa, che mescola l’istituzionale con il plebeo.
Nel frattempo, sul fronte della guerra in Ucraina, Putin apre (o finge di aprire) a un possibile dialogo, inviando a Istanbul una delegazione guidata da Vladimir Medinsky, falco noto e già presente nei precedenti negoziati del 2022. Con lui, figure militari e diplomatiche di peso, ma non il presidente in persona. Tuttavia, il ritorno sulla scena di Roman Abramovich – oligarca considerato vicino all’Occidente – lascia intendere che Mosca voglia giocare anche la carta della trattativa informale e parallela.
L’apparizione in Russia del presidente brasiliano Lula, reduce da Pechino, aveva fatto sperare in una mediazione Brics benedetta da Xi Jinping, ma il Cremlino ha subito ridimensionato: tra i due solo una telefonata. E così continua la “settimana enigmistica” russa, come l’ha definita la stampa di Mosca: un intreccio di segnali contraddittori, tra muscoli e ambiguità.
Nel sottofondo, la narrazione nazionale si spacca tra il “popolo” fiero, che rifiuta qualsiasi umiliazione, e l’élite accusata di svendere la patria per compiacere l’Occidente. Abramovich diventa così simbolo di un “club” sospetto, mentre Putin rilancia la propria immagine di unico interprete autentico del sentimento nazionale: “Ho 146 milioni di persone che la pensano come me”.
Fonte: Corriere della Sera, Marco Imarisio
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