In un momento in cui le questioni migratorie dividono e scuotono l’Europa, un’iniziativa diplomatica congiunta dell’Italia e della Danimarca ha acceso un dibattito che tocca il cuore del rapporto tra sovranità nazionale e diritto internazionale. Secondo quanto riportato da Euractiv e ripreso da Boulevard Voltaire in un articolo firmato da Georges Michel, i due paesi stanno cercando alleati tra gli Stati europei per sottoscrivere una lettera di critica alla Corte europea dei diritti dell’uomo (CEDU), accusata di essere andata “troppo oltre” nell’interpretazione della Convenzione del 1950, specialmente in materia di immigrazione.
A rendere simbolica questa iniziativa è la provenienza e il profilo ideologico delle due leader coinvolte: da un lato la socialdemocratica danese Mette Frederiksen, dall’altro la “post-fascista” italiana Giorgia Meloni, entrambe nate nel 1977, come Emmanuel Macron. Un’alleanza trasversale tra nord e sud, tra tradizione protestante e cattolica, che si fonda su un comune intento di difendere l’identità nazionale e il diritto degli Stati a decidere autonomamente sulle politiche migratorie.
L’articolo ricorda che la CEDU, emanazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo firmata a Roma nel 1950, si è costruita nel tempo come pilastro dell’“Stato di diritto” europeo, ma per molti governi, specialmente in tempi di crisi migratoria, essa rappresenta sempre più un vincolo giudiziario che ostacola l’efficacia delle politiche nazionali. Emblematico, in tal senso, il caso del 2023: l’Italia è stata condannata dalla Corte per aver rimpatriato forzatamente in Tunisia quattro migranti sbarcati a Lampedusa. Secondo i giudici, si trattò di “trattamenti degradanti” e di espulsioni collettive, vietate dalla Convenzione. La sentenza comportò un risarcimento di 8.500 euro a ciascun ricorrente.
Proprio per questo, la lettera promossa da Meloni e Frederiksen sottolinea un principio che potrebbe sembrare prudente, ma risulta fortemente politico: “Ciò che era giusto ieri, non lo è necessariamente oggi”. L’obiettivo non è dunque (almeno formalmente) mettere in discussione i diritti fondamentali, ma piuttosto ridiscutere come questi debbano essere interpretati alla luce delle nuove sfide dell’immigrazione illegale.
Altri paesi come Polonia, Paesi Bassi, Finlandia e Repubblica Ceca, secondo Euractiv, sarebbero potenzialmente inclini a sostenere questa iniziativa. Non è invece prevedibile che la Francia, con l’attuale governo, si unisca all’azione, anche per non correre il rischio di interferenze tra potere esecutivo e potere giudiziario, che violerebbero la sacra “separazione dei poteri”.
L’edificio giuridico su cui si basa la CEDU resta tuttavia robusto, costruito su decenni di trattati e ratifiche. La Francia, ad esempio, aderì ufficialmente alla Convenzione solo nel 1974, durante la breve presidenza ad interim di Alain Poher: un dettaglio che, sottolinea ironicamente l’autore, simboleggia l’ambiguità con cui spesso Parigi ha gestito il proprio rapporto con il diritto sovranazionale.
Il nodo fondamentale resta però aperto: si tratta solo di correggere “derive interpretative” oppure di denunciare apertamente le convenzioni che le hanno generate? Marine Le Pen, nel 2022, aveva parlato di “deriva giurisprudenziale” della Corte, pur ritenendo non utile l’uscita della Francia dalla Convenzione. Ma in passato aveva sostenuto l’esatto contrario. La questione, oggi, divide più che mai: tra chi vuole riformare e chi vorrebbe uscire. La “poutre” dell’architettura europea, come conclude l’articolo, forse scricchiola, ma non crolla. Per ora.
Fonte: Boulevard Voltaire
Le immagini di questo articolo sono generiche e AI-generated; uso libero per finalità editoriali e commerciali.