Manuel Gómez, arruolato per combattere nella guerra del Vietnam nel 1969, rifiutò la chiamata alle armi non per ragioni pacifiste generali, ma evocando la ferita aperta della guerra messicano-americana (1846-1848), che aveva privato il suo popolo della terra e dei diritti politici. Quel conflitto, che convertì in cittadini statunitensi oltre centomila messicani rimasti nei territori annessi — oggi California, Arizona, Texas e altri stati occidentali — generò una classe subalterna, socialmente subordinata ai bianchi, ma mai veramente inclusa. Da qui nasce il grido che ancora oggi risuona: “Non siamo stati noi a varcare il confine, è il confine che ha attraversato noi”.
Sono storie come quella del padre dello storico Omar Valerio-Jiménez, figura di primo piano nella ricostruzione di questa memoria collettiva. Negli anni Sessanta, un agente di frontiera mise in dubbio la cittadinanza di un operaio messicano-americano appena oltrepassato il confine a Matamoros: lui rispose con ironia, ricordando che la sua terra, Hills Prairie, era stata anch’essa messicana prima dell’annessione. Con questa battuta — una vera e propria “arma dei deboli” — riaffermò il diritto di esistere, contribuendo al racconto condiviso di un passato di conquista.
In Remembering Conquest: Mexican Americans, Memory, and Citizenship, Valerio-Jiménez mostra come il ricordo della guerra abbia alimentato le lotte per i diritti civili: dal rinvio del rimpatrio stabilito dall’articolo 8 del Trattato di Guadalupe Hidalgo (2 febbraio 1849), alla mobilitazione dei Chicano negli anni ’60 e ’70. Carovane della riconquista, rievocazioni del trattato per rivendicare l’istruzione e i beni fondiari, parallelismi con il Vietnam per denunciare ipocrisia ed esclusione: ogni generazione ha plasmato una “politica della memoria” utile a sfidare il «profondo fallimento» degli Stati Uniti nel garantire cittadinanza ed eguaglianza.
Ma la memoria non è monolitica: tra LULAC e ANMA gli sguardi sul passato variarono in base a classe e strategie di integrazione, mentre talvolta si taceva delle precedenti violenze indigene messe in atto da Mexicani stessi. Eppure, come sottolinea Rodolfo Acuña, «la storia può oppressare o liberare un popolo»: rifiutare l’oblio è il primo passo per trasformare il ricordo in strumento di azione. Oggi, invocare la “riconquista” dei territori messicani è anche un modo per denunciare politiche migratorie restrittive e rivendicare una cittadinanza mai completamente riconosciuta.
Fonte: https://www.publicbooks.org/borders-may-change-but-people-remain/
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