Ogni volta che, chiacchierando con un amico, ci ritroviamo qualche ora più tardi inondati di annunci sul tema di cui stavamo parlando, nasce l’impressione che il nostro smartphone o il nostro smart speaker ci stiano spiando, registrando ogni parola per poi usarla a fini pubblicitari. Eppure, un’inchiesta del BBC News guidata dal reporter Joe Tidy ha esaminato a fondo questa convinzione – talvolta divulgata come leggenda metropolitana – arrivando a questa conclusione drastica: non esistono prove che i giganti della tecnologia ascoltino costantemente le nostre conversazioni al solo scopo di migliorare il targeting degli annunci. “Molte persone credono che le loro conversazioni vengano registrate per la pubblicità mirata, ma non c’è traccia di ascolto continuo nei dati raccolti”.
Nonostante ciò, la paura persiste. Nel 2023 Business Insider ha infatti riportato che Cox Media Group aveva presentato a un ristretto gruppo di inserzionisti una tecnologia chiamata “Active Listening”, in grado di utilizzare i microfoni di smartphone e tablet per analizzare “conversazioni pre-acquisto” e suggerire annunci rilevanti. La notizia ha scatenato timori e polemiche, ma pochi mesi dopo la stessa Cox Media Group ha dovuto precisare: “Non abbiamo mai ascoltato conversazioni private né avuto accesso a dati oltre quelli aggregati da terze parti”.
Se il mito dell’ascolto perpetuo vacilla di fronte a queste smentite, rimane però un quadro ben più complesso: quello del “surveillance capitalism”, l’economia della sorveglianza che trasforma ogni nostra interazione digitale in materia prima per algoritmi di profilazione. Come sintetizza Shoshana Zuboff, la studiosa che ha coniato il termine, “il capitalismo della sorveglianza rivendica unilateralmente l’esperienza umana come materia prima gratuita da tradurre in dati comportamentali” . Non è dunque il microfono a spiarci di continuo, ma un’infrastruttura di cookie, tracker e fingerprinting che costruisce profili dettagliatissimi partendo dalle nostre ricerche, dai siti visitati e dalle interazioni social.
A spiegarci come mai ci illudiamo di essere ascoltati è il comportamento del nostro cervello. La psicologia cognitiva descrive la cosiddetta “illusione di frequenza” o fenomeno di Baader–Meinhof: una volta che un tema entra nella nostra attenzione, ogni suo apparire – per strada, in un articolo online, in un banner – viene percepito come conferma della nostra convinzione, mentre tutte le altre occasioni vengono dimenticate . Il sociologo digitale e policy officer di Open Rights Group, Mariano delli Santi, racconta: “Anche io ho pensato che il mio telefono stesse spiando ogni mia parola. Ma quando ho chiesto agli esperti, mi hanno spiegato che si tratta più di coincidenze e di bias cognitivi che di registrazioni reali”.
Allo stesso tempo, è innegabile che la raccolta massiccia di dati personali abbia ripercussioni profonde sul piano politico e culturale. Roger McNamee, veterano degli investimenti in Silicon Valley e autore di ‟Zucked”, osserva amareggiato come ciò abbia portato a un sistema di “modelli di business che sfruttano in modo manipolativo le informazioni degli utenti”, minando la fiducia nelle istituzioni e alimentando fenomeni di polarizzazione. Secondo Shoshana Zuboff, inoltre, “la democrazia è minacciata dai modelli di Google e Facebook, basati sull’estrazione di dati per manipolare i comportamenti” e richiede un “reset fondamentale” improntato a trasparenza, responsabilità legislativa e diritti dei cittadini.
In questo contesto, la vera sfida non è chiudere i microfoni, bensì riprendere il controllo della nostra impronta digitale. Le soluzioni esistono: dalle estensioni per il browser che bloccano tracker e cookie di terze parti, alle procedure per esercitare il diritto all’oblio e all’opposizione al trattamento dei dati personali. Ma, soprattutto, serve consapevolezza critica. Come suggerisce Zuboff, “…se non siamo noi a decidere quali esperienze personali siano convertite in dati, allora perdiamo l’ultimo baluardo della nostra libertà”.
Alla fine, dunque, l’impressione di essere ascoltati non è che la punta di un iceberg più grande: un ecosistema di sorveglianza diffusa che opera ben oltre il semplice microfono, sedimentandosi in ogni click, in ogni like, in ogni scroll. Riconoscerne le dinamiche e agire su più livelli – legislativo, tecnologico e culturale – è l’unico modo per trasformare il timore di essere spiati in un progetto concreto di autodifesa digitale. Solo così potremo riallacciare un rapporto di fiducia non con i nostri dispositivi, ma con noi stessi e con la democrazia che attraversa la rete.
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